mercoledì 21 marzo 2012

Una Quaresima puteolana








Una Quaresima puteolana
a Villa Maria alla Starza

La mia lunga infanzia inizia direttamente a Villa Maria dove vengo alla luce nel freddo gennaio del 1947 e dove, poco dopo, mi impartisce il battesimo l’indimenticabile Don Vincenzino Abete. Nascita, iniziazione e seguenti anniversari nel grande appartamento di Famiglia che fu dei nonni, situato al secondo piano della Villa in stile Liberty in via Miliscola.
Ben presto mi portano nel cortile e nelle prime foto, in questo scenario, sono a cavalcioni di una mucca, che fu mia nutrice, tenuta ben stretta dall’allora giovane allevatore. Appena muovo i primi passi inizio a frequentare e giocare con i nipoti dei vecchi coloni che coltivano l’allora esteso territorio non ancora rimpiccolito dagli ultimi espropri come quelli del 1953, subito per la realizzazione del Mercato Ortofrutticolo all’Ingrosso, e del 1987, subito per permettere il raddoppio della Ferrovia Cumana.
Quella che in passato era una estesa masseria conosciuta come “Territorio alla Starza”, ha di già patito negli ultimi 250 anni pesanti decurtazioni con i seguenti espropri:
Nel 1750 circa per la sistemazione dell’Alveo Campano.
Nel 1786 per la costruzione, voluta da Ferdinando IV, della nuova strada, che taglia in due la proprietà, essendo invasa dal mare la vecchia strada costiera.
Nel 1794 per la cessione alla Università di Pozzuoli della parte paludosa rimasta separata dal Territorio principale.
Nel 1885 per la costruenda Ferrovia Cumana.
Nel 1890 per l’adattamento della provinciale in previsione del prolungamento della linea tranviaria fino a Baia.
A tutti questi aggiungiamo l’attuale progettata trasformazione della Villa in stazione per la Ferrovia Cumana. Programma accettabile se fosse attuato e non solo sbandierato a livello propagatore da amministratori comunali, regionali e societari; progetto che da dieci anni blocca proprietari e fabbricato. Credo che nessun Territorio abbia subito tanti espropri, negli ultimi documentati tre secoli, e nessuno dei suoi possessori ha mai effettuato speculazioni su quello che era un ampio e verde polmone al centro della città. Vendendo o lottizzando avrebbero oggi evitato facili mire espropriative; ma torniamo a noi.
In quel 1947 nella Villa ci sono tre appartamenti abitati dai fratelli Antonio, Enrico e Carmine Peluso con le rispettive Famiglie. Mio zio Antonio ha tre figlie, ma solo l’ultima, Rita, è mia coetanea con cui poter giocare. Mio zio Enrico ha cinque figli e solo gli ultimi due, Gianfranco e Lidia, son quasi della mia età; solo nel 1951 arriva anche il piccolo Guido che diventa la mascotte di tutto il podere. Mio Padre, oltre me, ha mia sorella Maria Rosaria più piccola di solo un anno.
Due altri civili appartamenti sono abitati il primo dalla Famiglia Molino il cui Padre, inizialmente pescatore, nel 1955 diviene operaio poiché assunto dal dirimpettaio cantiere “Trione Ferroleghe”. E’ questa la famiglia ideale per i frequentatori del cortile; ha ben cinque figli e si gioca con tutti, dalla più grande al più piccolo. Il secondo appartamento è abitato da due nuclei di origine toscana, i Bertini e i Petrucciani; tutti occupati presso il Grand Hotel Londra di Napoli; sono gli unici residenti che non hanno bimbi piccoli con cui poter giocare.
Al piano terra abitano nell’antico “Casone” i coloni, ovvero Menichiello (Domenico) Biclungo con sua moglie Rosina e sua figlia Brigidina, che per la sua età possiamo lecitamente definire “zitella”. I coloni non sempre sono soli perché vengono a trovarli, e spesso restano li a dormire, tre loro nipoti orfane di un figlio dello stesso Biclungo. Queste tre ragazze, Antonietta, Tina ed Enzina, saranno affiatate compagne di gioco per molte stagioni.
Sempre al piano terra, vicino al “cellajo”, esiste un altro piccolo locale, anticamente adibito ad “uso cavallini”, in cui vive un altro figlio del Biclungo con i suoi figli poco più grandi di me; tutti aiutano i nonni nella coltivazione del Territorio. Infine nei casamenti rustici distaccati, le cosiddette “stallucce”, vive, come nei Sassi di Carlo Levi, la famiglia del vaccaro Vittorio Perrotta, quello visto nella prima foto, che è circondato da una moltitudine di figli scaglionati nelle varie età. Oggi possiedono un importante caseificio a Varcaturo.
La vita del cortile risente delle recenti sofferenze della guerra senza poter ancora assaporare i benefici dell’imminente boom; la filastrocca che maggiormente stornelliamo così recita: “l’apparecchio americano, vott‘ i bombe e se ne va’; se ne va’…..”. Per fortuna non ricordo il prosieguo. Rari i giocattoli, molti i semplici giochi di gruppo, tante le opportunità di apprendere, infinite le tradizioni da rispettare.
Tra queste la “Quaresima”. Così chiamavamo la bambola di pezza somigliante ad una strega che veniva appesa il mercoledì delle Ceneri all’arcata centrale nel cortile di Villa Maria. Un'usanza antica, arcaica, che aveva una originaria funzione pagana legata al culto dionisiaco. Era un fantoccio di donna vestito di bianco e di nero, i colori del lutto, e in basso al di sotto del lungo vestito una patata trattenuta da un fil di ferro che scendeva dalla struttura in legno del pupazzo. In questa patata si infilavano in cerchio sette penne di gallina, sei nere ed una bianca. La patata rappresentava il sesso femminile e le sette penne l’interdizione temporanea ad ogni rapporto nel periodo di astinenza. Un antico calendario simbolico, magico, rituale. Carnevale e Quaresima, infatti, per la cultura popolare sono fratello e sorella ma anche marito e moglie, e con la morte di Carnevale il martedì grasso iniziano, in attesa della Pasqua, le sette settimane di Quaresima. Ogni domenica quaresimale, dopo aver partecipato alla Santa Messa e prima del pranzo, da questa simbolica bambola rituale, veniva estirpata una penna nera. L'ultima penna, quella bianca, veniva sfilata dalla patata la notte del Sabato Santo ad indicare la fine dell'astinenza e del tempo quaresimale. Durante le sette settimane non si potevano mangiare dolci, non ci si doveva pettinare i capelli, non si spazzava il pavimento, non si mangiava carne, non si dovevano aggiustare i letti, non si doveva cucire e non si doveva cucinare in modo troppo elaborato; mio Padre aggiungeva di suo che non bisognava tagliarsi le unghie.
Ma io ero piccino ed il significato di tutte queste simbologie l’ho saputo solo ora chiedendo e leggendo qualche cosa sull’argomento. Per me era solo un gioco cui, finalmente, partecipavo insieme agli adulti.
C’era necessità di adoperare una lunga scala per raggiungere il chiodo al centro dell’arco ed appendere il feticcio. Anche il più grande treppiede era insufficiente e si usava una speciale scala di legno, quella stretta che i contadini utilizzano per penetrare in alto tra il fogliame degli alberi, in particolare sui fichi. Questa operazione veniva eseguita, nei miei primi anni, da Mimì ed in seguito da Gennaro, entrambi nipoti dei coloni Biclungo. Ero troppo piccolo ma guardavo ammirato e con invidia chi compiva quell’atto, per me ardimentoso, sotto l’attento sguardo degli abitanti della Villa ed anche del vicinato. Sognavo il giorno che sarei salito a sfiorare quel trofeo.
L’operazione si ripeteva ogni domenica, il giovane contadino salendo si fermava a metà della scala, noi altri in cerchio recitavamo delle preghiere e la vecchia Rosina mormorava delle indecifrabili parole. Non capivo se fossero orazioni o magiche parole da fattucchiera; ancora oggi me ne resta il dubbio. Poi il ragazzo saliva gli altri gradini, toglieva una penna e ridiscendeva al punto in cui prima si era fermato. Di nuovo recita delle preghiere e poi completa discesa a terra. La penna che era stata rimossa dalla patata veniva bruciata in una “buatta” mentre, ancora in cerchio, riprendevano a pregare tutti coloro che aveva partecipato alla funzione.
La bambolina restava poi sola a dondolare al minimo spirare del vento che certo non mancava in quei mesi di febbraio e marzo. Non nascondo che a volte di sera al buio, quel suo lento ciondolare, mi incuteva un sinistro timore; nella mia giovane fantasia l’associavo all’immagine di una strega condannata alla forca. Nelle serate quaresimali evitavo di restare solo nel cortile e quando dovevo attraversarlo scongiuravo di sollevare lo sguardo fin sotto quell’arco dal quale solitamente pendevano innocui “mellune” impagliati e “piennoli” di pomodori.
Finalmente giungeva il Sabato Santo, dopo la penna bianca veniva tirato giù anche il fantoccio ed il tutto veniva bruciato così come nelle Chiese bruciava il Sacro Fuoco Santo, preludio allo scioglimento della Gloria, alla Pasqua, alla fine di ogni astinenza ed all’inizio di un nuovo periodo che si sperava prospero e fecondo.
Per tradizione e scaramanzia la bambolina doveva essere prima allestita ed infine bruciata dalla “signorina” più grande in età facente parte della famiglia che apprestava il sacro rito. Nella patriarcale discendenza di Menichiello la più anziana “zitella” è sempre stata sua figlia Brigida Biclungo e nei miei ricordi che vanno dalla fine degli anni ‘40 agli inizi degli anni ‘60 sempre lei ha avuto l’incarico di preparare la pupa. La memorabile Brigidina è venuta a mancare solo di recente all’età di circa 100 anni in casa dell’artista La Mura dove aveva seguito sua nipote Tina, giovane sposa del Maestro Peppe.
Ah! Quante bamboline avrebbe dovuto preparare se fosse rimasta a Villa Maria. Non so se sarebbe arrivato anche per me l’ardimentosa opportunità di salire ad estirpare le penne, ma certo i miei occhi non avrebbero visto altra “signorina”, oltre Brigida, impegnata nella preparazione della “Quaresima”.

Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 3 marzo 2012

sabato 17 marzo 2012

Quarto in Liburia







Quarto in Liburia




Tempo fa i municipi casertani di Lusciano, Parete, Trentola - Ducenta, San Marcellino, Villa di Briano e Frignano avevano cercato di dar vita ad una associazione di servizi che doveva chiamarsi “Unione dei Comuni Liburia”. Questo primo progetto sembra essere naufragato per il poco interesse mostrato dai politici locali ma poi è stato ripreso nuovamente, questa volta dai soli quattro comuni di San Marcellino, Trentola - Ducenta, Frignano e Villa di Briano, con la denominazione di “Nuova Liburia”.
Anche se compiaciuto, per la pur sempre lodevole iniziativa, ho pensato che un ristretto numero di “semisconosciuti casali” sta appropriandosi di un antico toponimo che inizialmente designava solo i nostri “campi ardenti”.
Il nome Liburia compare per la prima volta nel I secolo d.C. con Plinio il Vecchio che, nella sua opera “Naturalis Historia” scritta tra il 23 ed il 79, indica come “Leboriae Agros” ovvero “Campi Leborini” l’attuale piana di Quarto. La denominazione andò estendendosi progressivamente nel corso dei secoli fino a designare la futura intera provincia di “Terra di Lavoro” che forse, come vedremo, da quel toponimo ha origine. Per il significato del nome Leboria ci sono solo congetture. Secondo la maggior parte delle fonti questo toponimo potrebbe essere derivato dal nome di un'antica popolazione, quella dei Leborini, o Liburi, che abitava questi nostri luoghi. Ma Alberto Perconte Licatese, nella sua opera “Capua Antica”, porta le seguenti altre ipotesi. Riferisce che inizialmente si è pensato ad una relazione col latino “lepus”, lepre. In età più tarda, nel XII secolo, sarebbe stato collegato al latino “labor”, inteso come lavoro agricolo, voce passata in alcune lingue romanze ad indicare il campo seminato. Ma non esclude che il toponimo Leboria sia derivato da una cor¬ruzione dell’aggettivo greco latinizzato Flaegreus, con caduta della consonante iniziale (Legreia – Leguria - Leburia), tanto più che le varianti Liguria e Liburia sono entrambe attestate nel “Pactum” del 786 tra il principe Arechi e il duca di Napoli; il primo documento medievale nel quale detto toponimo risulti dopo secoli di oblio.
Dunque Plinio (Quantum autem universas terras Campus circum Campanus antecedit, tantum ipsum pars ejus, quae Leboriae vocantur, quam Phlegraeum Graeci appellant) fa riferimento ai territori che i Greci conoscono come “Phlegrei”, ed esattamente i campi periferici interni (Quarto, Grotta del Sole, Monterusciello, Monte San Severino) in cui sono insediati solo vici, pagi e villae abitati da popolazioni agricole. In questo stesso agro leborino , in località Torre S. Chiara oppure a Monte S. Severino, altre fonti riferiscono sorgesse il santuario di Hamae. Luogo sacro ai campani, distante tre miglia da Cuma, ove romani ed alleati cumani sconfissero Annibale che, con l’appoggio di Capua, tentava di conquistare Pozzuoli e la stessa Cuma.
Dunque la dicitura Liburia, Leboria, Leboriae o, secondo un'ulteriore variante, Liguriae andava ad indicare e delimitare una sola specifica e fertilissima area della più vasta regione conosciuta come Campania Felix. Territorio questo che, insieme al Latium, avrebbe poi formato la “Regio I” nella suddivisione dell’Italia romana voluta da Augusto.
Con la caduta dell’impero romano il toponimo Liburia cade in disuso e scompare dai documenti almeno fino al VII secolo, lasciando il passo al più comune termine “Campania”. Poi un documento del VIII secolo riporta che nel 715, durante il confuso periodo storico in cui la Campania è sottoposta alla dominazione bizantina lungo la zona costiera e a quella longobarda nell'interno con continui spostamenti di confine, il Duca di Napoli sottrae Cuma ai Longobardi, occupando anche le terre “leboree” che da allora vengono indicate come “liburia ducalis”; cioè appartenenti al ducato di Napoli. Va indebolendosi sempre più il potere dell'Impero Bizantino sulla penisola italica a favore di una maggiore indipendenza acquisita dai suoi vassalli, ed i Duchi di Napoli estendono, a poco a poco, il patrimonio del loro Ducato; la Liburia, limitata inizialmente alla piana di Quarto, e poi estesa a Cuma, si dilata sino a Liternum fissando il confine col territorio del principato longobardo di Capua. I territori di questo principato costituiscono la “liburia capuana” e il corso del fiume Clanio, gli attuali Regi Lagni, ne costituiscono il confine sia con la “liburia ducalis” che con un'altra Liburia, la cosiddetta "liburia atellana". I Territori di quest’ultima vanno da Grumo, confinando quindi con la “liburia ducalis”, al luogo detto “a Quartum” ad occidente, sulla via consolare campana che viene a dividere così la Liburia propriamente detta in due parti, l'una verso il mare sotto la dipendenza di Napoli e l'altra verso oriente appartenente alla giurisdizione di Capua ed ai Longobardi.
Anche per la "liburia atellana" il Clanio, a nord, costituisce il confine naturale con la “liburia capuana”, mentre il bosco di S. Arcangelo, nelle vicinanze di Caivano, la delimita ad est. Il già citato documento del 786, relativo ad un “pactum” siglato da Arechi principe longobardo di Benevento ed il Duca di Napoli, cita il toponimo nella sua versione volgare di Liburia.
Ormai, nel corso dei secoli, i confini del territorio identificato come Leboriae si sono ampliati; la denominazione Liburia viene accostata ad una buona porzione del Ducato di Napoli e va gradualmente a riferirsi ad un'area molto più vasta dell'originale comprendente oltre Napoli e Pozzuoli anche le città di Cuma, Aversa, Capua e Atella.
Non solo, ora anche i Longobardi di Benevento e Salerno iniziano ad associare al toponimo Liburia parte delle loro terre, in particolare le zone confinanti con la Liburia napoletana; in tal modo anche i territori di Nola, di Acerra, di Suessola e di Avella sono, per consuetudine, denominati Laborini. Successivamente, nei documenti si ritrova il toponimo Liburia associato anche ad altri territori del Ducato di Napoli verso Amalfi. Il nome viene poi affiliato anche ad altri territori conquistati o persi dal Ducato di Napoli, incluse le isole; nasce quindi, accanto alla “liburia ducalis”, strettamente detta, una Liburia longobarda a seguito della conquista napoletana dei territori longobardi, e una Liburia salernitana, a seguito della conquista salernitana dei territori napoletani. Poi nel 1036 arrivano i normanni e il Duca di Napoli Sergio IV, per ricompensare Rainulfo Drengot dell’aiuto prestatogli contro Pandolfo di Capua, gli cede in feudo la “Terra di Averze”. L’abile principe normanno fortifica ed amplia il feudo a spese dei confinanti arrivando, con la contea e la nuova diocesi di Aversa, a ridosso delle colline che circondano Pozzuoli. Il nipote Riccardo non esita a fregiarsi del titolo di “Comes Liguriae Campaniae”, avendo in pratica la neonata contea di Aversa gli stessi confini dell’antica Liburia pliniana. A questo punto dalla iniziale piana di Quarto la zona denominata Liburia si è estesa prima ai territori immediatamente circostanti il ducato di Napoli e poi, alla fine dell'XI secolo in epoca normanna, a tutta quella che poi verrà indicata come Terra di Lavoro; denominazione questa che farà cadere in disuso il toponimo Liburia.
Per curiosità si restituiscono, ma non avvalorati da base documentale, i passaggi che secondo Flavio Biondo condussero ai mutamenti toponomastici da Campania a Liburia e da Liburia a Terra di Lavoro. Lo storico indica nella volontà delle popolazioni locali di non essere più chiamati campani nel corso dell’alto medioevo, cosa questa che li portava ad essere identificati con l'antica Capua, nemica di Roma. Pertanto reintrodussero il termine Leborini, e da ciò il territorio sarebbe stato detto Leborio o Terra di Lebore. Quest'ultimo nome, poco orecchiabile, sarebbe stato mutato in “Labor”, Terra di Labore, in latino “Terrae Laboris”.
Nel 1221 Federico II istituisce il “Justitiaratus Molisii et Terre Laboris”, uno dei distretti amministrativi, i giustizierati appunto, in cui sono suddivisi i territori del regno. I distretti di giustizia imperiale sono affidati ad un rappresentante del potere regio, il “Gran Maestro Giustiziere”, attraverso il quale l'autorità del re si sovrappone a quella dei feudatari. Solo nel 1538 il Contado del Molise è separato dalla Terra di Lavoro e suo giustiziere diventa quello della Capitanata. La “Terre Laboris”, corrisponde, a grandi linee, alla odierna provincia di Caserta anche se il toponimo andrebbe attribuito in senso specifico al solo territorio che va dal Massico ai Campi Flegrei.
Nel 1227 Federico II fa edificare una dimora fortificata, il Castello “Belvedere” o “Monteleone”, che domina la conca di Quarto e controlla la via consolare campana. Esso è ubicato al confine tra il ducato di Napoli e quello di Aversa ed alla morte di Federico è incendiato da una sollevazione popolare. Viene fatto ricostruire da Carlo I D'Angiò nel 1275 e si fa obbligo a sessanta famiglie di risiedere nelle vicinanze del castello. Questo fortilizio passa di mano varie volte fino a che nel 1630 vi troviamo, quali feudatari residenti, la Famiglia Pignatelli – Monteleone. Essi dominano sulle terre di San Rocco, Quarto, Grotta del Sole e Monterusciello, pertanto sono in molti a considerare questo feudo, ricadente completamente nella competenza della Diocesi di Pozzuoli, quale ultimo lembo dell’antico agro che ancora venga appellato con la dicitura “Liburia”.



Giuseppe Peluso - Quarto Magazine - Febbraio 2012

martedì 6 marzo 2012

L’avventura della terza rotaia























L’avventura della terza rotaia
Sulla Napoli - Pozzuoli - Villa Literno


La trazione elettrica ferroviaria a mezzo filo aereo con corrente continua (cc) a 3.000V, come oggi siamo abituati a vederla, viene sperimentata dalle Ferrovie dello Stato solo alla fine degli anni ‘20, sulla Foggia - Benevento. In precedenza, per eliminare le fastidiose conseguenze provocate dal fumo della trazione a vapore specialmente nelle gallerie, le preesistenti reti ferroviarie private sperimentano tre diversi sistemi elettrici.
1) La trazione elettrica fornita da accumulatori, sistemati a bordo delle locomotive. Sistema questo subito abbandonato per la poca autonomia assicurata dalle batterie ancora rudimentali alla fine dell’ottocento.
2) La trazione a corrente alternata trifase a 3.000 Volt alimentata dal bifilare con un complesso sistema di palificazione e fili aerei. Viene applicato sui valichi alpini dove resta operativo fino al secondo dopoguerra.
3) La trazione a corrente continua 650 Volt alimentata a mezzo della terza rotaia. Viene inaugurata nel 1901 dalla Rete Mediterranea (R.M.) sulla linea Milano – Varese – Porto Ceresio.
L’impianto di quest’ultima linea è di concezione americana, studiato dalla General Electric Company (G.E.) che qui trasporta la sua concezione progettuale. La G.E. già fornisce attrezzature e materiale rotabile per le metropolitane americane e parigine che utilizzando questo sistema evitano i fastidiosi effetti del fumo nel sottosuolo cittadino. Per non parlare del forte risparmio sui costi d’impianto poiché il conduttore è di semplice montaggio ed è costituito non da rame ma dall’economico ferro di vecchie rotaie che per usura non sono più utilizzabili per il normale esercizio.
La G.E. trasmette assistenza ed equipaggiamento elettrico per le prime elettromotrici passeggeri, che sono poi conosciute come le “varesine”. Queste non sono belle ragazze ma treni; rotabili di evidente stile americano con telaio metallico, ma cassa di legno poggiante su due carrelli ognuno a due assi. Ogni carrello dispone di due motori di trazione e di due pattini per captare la corrente dalla terza rotaia. Questa è isolata elettricamente da terra, posta a lato del binario lungo tutta la linea, ed opportunamente protetta, soprattutto nelle stazioni. Solo agli incroci con altre linee ferroviarie, ai passaggi a livello ed agli attraversamenti pedonali nelle stazioni, la terza rotaia non viene montata e le motrici superano “di corsa” questi piccoli tratti. Sta all’abilità dei macchinisti attraversare di slancio tali tratti con i motori disinseriti. A volte però capita che sbagliano la “rincorsa”, l’inerzia diventa insufficiente così il mezzo si ferma al centro di una zona non alimentata. Allora si utilizza un “cavo di salvamento” per ristabilire il contatto. Un ferroviere scende dal treno e collega il detto cavo al pattino; poi con l’altra estremità, munita di manici isolati, si reca alla terza rotaia più vicina per ristabilire il contatto. Una volta ripartiti il collegamento d’emergenza viene tolto.
Le prime 20 elettromotrici vengono immatricolate dalla Rete Mediterranea come MACeFC 5111-5130. La lettera “M” significa Motrice, la “A” significa che ha posti di prima classe, la “C” significa che ha posti di terza classe, la sottolettera di base “e” significa che ha alimentazione elettrica e le lettere in apice “FC” significano che è presente il “Freno Continuo”. Con il passaggio alle Ferrovie dello Stato sono immatricolate con la più semplice sigla E10 cui, pochi anni dopo, si aggiungeranno le elettromotrici delle serie E15 ed E20.
Per il servizio traino merci viene consegnata uno locomotore, sempre con captazione a mezzo terza rotaia, che la Rete Mediterranea classifica “RM01”. Nel 1905 avviene la nazionalizzazione di tutte le reti ferroviarie che così passano sotto l’amministrazione statale delle Ferrovie dello Stato e queste provvedono pure a modificare il suddetto locomotore, nel frattempo riclassificato E420.001, con l’applicazione di corrimani e sabbiere.
Per molto tempo l’esperimento della terza rotaia, che resta relegato alla Milano – Varese, non trova applicazione su altre linee. Poi le Ferrovie dello Stato lo ripropongono per il nuovo “Passante Ferroviario di Napoli” o cosiddetta “Metropolitana di Napoli” sulla tratta Napoli Giantuco – Pozzuoli – Villa Literno. Questa nuova linea si stacca dalla costruenda “direttissima” Roma – Napoli in prossimità della stazione di Villa Literno e si dirige verso Pozzuoli. Penetra nelle colline napoletane all’altezza della stazione Campi Flegrei per poi riemergere nel piazzale all’estremità posteriore della grande stazione di Napoli Centrale.
I lavori cominciano nel 1909 e durarono ben sedici anni; la nuova linea sarà inaugurata solo il 20 settembre 1925. I principali problemi che si riscontrano nella costruzione sono causati soprattutto dalla morfologia del territorio, dal lungo tunnel che sottopassa Napoli e dallo scoppio della prima guerra mondiale che interrompe i lavori per diversi anni. Trattasi di una importante ed utile opera che però arreca danni irreversibili a molte presenze archeologiche puteolane. L’anfiteatro minore, o “repubblicano” vede l’arena, e parte della cavea, irrimediabilmente distrutta e tagliata in due da questa nuova linea che praticamente l’attraversa. Gravissimi danni pure a importanti siti della necropoli di via Campana e danni, se pur minori, a strutture funerarie di via Vecchia San Gennaro.
La brevità della linea, il carattere metropolitano dell’esercizio passeggeri, l’estendersi del tracciato per gran parte nel sottosuolo, sono elementi che favoriscono l’elettrificazione della linea con l’allora più economico e semplice sistema disponibile, la terza rotaia, allo stesso modo della linea “varesina” che ha le stesse caratteristiche di traffico. La terza rotaia, che vediamo coperta da una struttura in legno nella prima foto riprendente la stazione di Pozzuoli nel 1925, è a via superiore ed è posta per tutto il tracciato della linea nell’intervia del doppio binario. La tensione continua da 650V è fornita dalle tre sottostazioni di Napoli, Campi Flegrei e Villa Literno che acquistano l’energia elettrica dalla “Società Meridionale di Elettricità” proprietaria di alcuni bacini idroelettrici nell’Appennino Campano e di una centrale termoelettrica a Napoli.
Al momento dell'inaugurazione sono presenti tre stazioni intermedie nella tratta extraurbana, e cioè Giugliano (poi denominata Giugliano - Qualiano), Quarto (poi denominata Quarto di Marano) e Pozzuoli Solfatara. Nella tratta urbana della città di Napoli sono presenti sei stazioni, ossia Piazza Garibaldi, Piazza Cavour, Montesanto, Piazza Amedeo, Chiaia (dal 1927 Napoli Mergellina) e Fuorigrotta (dal 1929 Napoli Campi Flegrei). Con il passare degli anni vengono aggiunte altre stazioni; nel 1927 sono inaugurate le stazioni di Bagnoli e di Gianturco, nel 1929 quella di Piazza Leopardi e nel 1959 Cavalleggeri d'Aosta.
Il traffico passeggeri è svolto prevalentemente sulla tratta da Napoli a Pozzuoli sulla quale si gusta il viaggiare silenzioso e la mancanza di fumo. A tale scopo sono dirottate su questa linea le elettromotrici passeggeri a comando multiplo tipo E20, come vediamo nella foto 2 ripresa a Pozzuoli, e le locomotive da traino tipo E321. Queste ultime, insieme alle precedenti E320, hanno ormai preso il sopravvento nel traino di convogli sulla linea “varesina” e reso là inutile la presenza del locomotore E420 ex RM01 che pertanto viene inviato sulla nuova tratta napoletana dove, dagli allegri ferrovieri partenopei, viene soprannominato “l’americano”.
Nella terza foto, che riprende la stazione di Pozzuoli ormai fornita delle caratteristiche pensiline merlettate, si nota, ferma sul terzo binario, una elettromotrice E20 con relative rimorchiate. Tra il primo ed il secondo binario si scorge, montata nell’intervia, la terza rotaia che si interrompe all’altezza dell’attraversamento pedonale dei binari.
Appena inaugurata la linea grandi cartelloni, con su disegnato un teschio, segnalano allarmanti “pericolo di morte”; riferiscono che sulla terza rotaia fila una corrente di alta tensione. Vietato, dunque, attraversare i binari al di fuori dei punti consentiti. Con le odierne norme di sicurezza sarebbe impensabile un tale aleatorio sistema basato solo sulla discrezionalità degli utenti e degli incauti attraversatori.
Mio Padre raccontava di incidenti capitati, su questa tratta Napoli – Pozzuoli – Villa Literno, per fortuiti contatti con la terza rotaia. Succedeva sia nelle stazioni per la fretta di prendere un treno a volo e sia in aperta campagna dove l’analfabetismo non permetteva la lettura dei cartelli, facendo ignorare il pericolo. Nonostante abbia cercato non ho trovato notizie sicure di incidenti su questa linea. Forse non sono stato molto attento o potrebbero essersi sentite solo “leggende metropolitane”. Io ho trovato solo una “parabola” riportata nei “Racconti di Don Dolindo” e che merita di essere restituita.
«Da pochi giorni si era inaugurata a Napoli la Metropolitana e grandi cartelloni con su disegnato un teschio segnalavano un “pericolo di morte”. Sulla terza rotaia correva una corrente di alta tensione; vietato, dunque, attraversare i binari! Padre Dolindo, interessato sempre a calare nella realtà della vita per orientarla al polo giusto, si affrettò a visitare la stazione di Piazza Cavour e scese giù, ai treni. Si fermò un attimo ad osservare i cartelli su indicati e... incominciò ad attraversare i binari. Un urlo dalla folla che sostava in attesa:
“Padre... è proibito! C'è pericolo di morte!!! Padre, tornate indietro!”
Padre Dolindo si fermò e calmo calmo disse: “Pericolo di morte? Io non ci credo”. E fece per procedere oltre. Qualcuno corse a fermarlo.
Tornato indietro, alla folla che si era formata intorno a lui, Padre Dolindo col sorriso incominciò a dire: “E perché, quando la Chiesa vi dice: questo non dovete farlo, c'è pericolo per l'anima vostra... perché voi non ci credete? E violate la legge di Dio? E non ascoltate la voce del Signore che vi dice: Figlio mio, tu muori se fai questo... Figlio mio non farlo! Tu puoi morirne per l'eternità!... Perché allora?”
E la folla capì perché Padre Dolindo aveva finto di voler andare incontro alla terza rotaia... »
Il centro di Pozzuoli, a quel tempo, è già ben collegato a Napoli con la linea ferroviaria cumana e con la linea tramviaria, entrambe elettrificate; ma la prestante gioventù puteolana, per recarsi nel capoluogo, si sobbarca della erta salita alla “direttissima” con la speranza di piacevoli incontri con signorine della buona borghesia napoletana che solitamente utilizzano le stazioni di Mergellina e Piazza Amedeo. Questo sussurravano, negli anni ’30 a Villa Maria, i vari Mario Gentile, Odoacre Oriani, Mario Flandin, Franz Zinno e poi i D’ambrosio i Mirabella e gli stessi fratelli Peluso.
Intanto si afferma definitivamente la trazione elettrica, col “sistema italiano” a cc 3.000V a filo aereo, che inizia ad essere montato anche sulla nostra “metropolitana”. Il 28 ottobre 1935 cessa il servizio con materiale a terza rotaia e subentrano le nuove elettromotrice passeggeri E624, che vediamo nella quarta foto. Le E321 da traino sono rinviate sulla Milano – Varese dove si continua ad usare il vecchio sistema. Le vecchie E20 non ritornano al nord dove ora il materiale passeggeri è costituita dalle nuove E623, quindi vengono demotorizzate e trasformate in rimorchiate. Per il locomotore E420 si preannuncia un futuro incerto; ma per esso avviene un miracolo tutto napoletano che merita essere raccontato a parte.



Giuseppe Peluso - Pozzuoli Magazine del 17 febbraio 2012