martedì 19 febbraio 2013

I Pescatori di Pozzuoli - Parte prima












I pescatori di Pozzuoli
Parte Prima - Lungo le coste toscane

Le memorie della marineria puteolana, e il recente volume di D’Alessio e Paliotta  I Pescatori di Pozzuoli a Ladispoli”, narrano che da secoli nostri paesani si sono trasferiti in altre località del Tirreno per poter svolgere lucrosamente sia l’attività di pescatori che quella di pescivendoli.
Il passato racconta che Pozzuoli è stato esempio unico dell'esistenza di due categorie di pescatori nettamente distinte: i "piscatori d'à rezza" o "di Sant'Antonio" e i "marenari d'abbascio ò mare" o "dell'Assunta".
I primi [1] pescano nel golfo sia dalla barca che da terra con la sciabica; tra loro si dividono il pescato che vendono in proprio a Pozzuoli e a Napoli. Ancora ricordiamo il loro coreografico assalto mattutino ai treni della Cumana presso la stazione di Pozzuoli; le urla, gli spintoni, le precedenze mai rispettate e... il coro finale quando il convoglio parte lasciando a terra qualche tinozza o delle cassette col rispettivo proprietario.
I secondi [2] effettuano una "transumanza" in vari periodi a seconda la località tirrenica da raggiungere; migrazione terminata solo negli anni '50 del '900. Le barche usate per la pesca e gli spostamenti sono la paranza, la paranzella o il gozzo, e la metà del pescato catturato, "co a' rezza e' posta", lo si divide fra gli equipaggi.
Don Vincenzo Cafaro, l’indimenticabile Don Filo puteolano, così ricorda la partenza dei pescatori nel suo “Abbascio o’ mare”:
“Stasera le barche partono; staranno fuori casa e fuori paese otto o nove mesi. La nuova famiglia sarà la ciurma a bordo, e la casa la barca, e il tetto una larga tenda incerata che li riparerà di giorno e di notte dal freddo e dalle intemperie. Andranno a Ostia, a Civitavecchia, a Santa Marinella, a Livorno, a Portolongone e altri più lontano ancora.
Le coste toscane, ed in particolare quelle dell’Argentario, i pescatori puteolani iniziano a frequentarle nel XVIII secolo quando il cosiddetto “Stato dei Presidi” (composto da promontori, isole e fortezze della costa toscana) passa nel 1735 sotto il dominio del Re di Napoli. La maggior sicurezza contro le incursioni corsare, dovuta alle sue possenti fortificazioni, ed il fatto stesso che non si tratta più di territorio straniero ma napoletano, favoriscono l’immigrazione di pescatori stagionali da località del regno borbonico come Procida, Torre del Greco e Pozzuoli.
Questi ultimi lasciano le loro famiglie, portandosi dietro i figli più grandi, all'inizio della bella stagione e dopo una vita miserrima sulle loro barche o in rudimentali capanne, vi fanno ritorno in autunno carichi di pesce essiccato o conservato da consumare in inverno. Durante la permanenza sull'Argentario, parte del pescato lo vendono, ma spesso lo barattano con altre merci indispensabili, nelle vicine campagne. Alla base di questa loro migrazione vi è la difficile condizione economica in cui versa il Regno di Napoli, la ricerca di un mare meno sfruttato ed una minore concorrenza.
Sono questi pescatori stagionali, poi diventati stanziali, che introducono sull'Argentario le tecniche di pesca e di attività marinara la cui conoscenza diventa poi patrimonio della sua gente. Sono i primi a praticare una pesca organizzata e non individuale mentre i genovesi, con i loro “leudi” più grandi, praticano preferibilmente la raccolta del corallo e la pesca del pesce azzurro. Con gli anni vediamo consolidarsi sulle coste settentrionali dell’Argentario un primo nucleo di famiglie stabilmente residenti; sono puteolani che si dedicano ad ogni tipo di pesca utilizzando un'attrezzatura più povera, tramagli, lampare, nasse e palamiti. Da allora l’attività di pesca si intensifica, favorita dalla presenza di strutture di supporto stabili a terra per la manutenzione e la costruzione delle barche e delle loro famiglie, valido aiuto per la preparazione degli attrezzi per la pesca; principalmente la confezione delle reti, delle nasse e delle vele, e il trattamento del pescato.
Nel XIX secolo Porto Santo Stefano, capoluogo dell’Argentario, è ormai un paese di qualche migliaio di anime e la pesca, con tutte le attività ad essa connesse, è certamente la più rilevante e redditizia per i suoi abitanti. Importanza ha acquisito anche il mercato del pesce, sia quello fresco che conservato, ormai esteso ben oltre i paesi limitrofi raggiungendo le grandi città dell'interno e della costa.
Oltre a quella generica particolare rilevanza ha la pesca del tonno, introdotta dai pescatori flegrei, e per lungo tempo davanti a Porto Santo Stefano è attiva una tonnara, gestita inizialmente da pescatori di Procida; ancora nella prima metà dell'800 è tra le più importanti del Tirreno centrale.
La marineria che maggiormente ha improntato l'arte marinara all'Argentario è quella puteolana e naturalmente le barche da pesca che solcano il suo mare sono ovviamente quelle utilizzate dai pescatori migranti dalla costa flegrea, seguiti in numero molto minore dai liguri ed ancor meno da elbani ed altri. Pertanto le barche caratteristiche e più diffuse sono i gozzi per la pesca sottocosta, le agili paranzelle a vela e le paranze per la pesca in mare aperto. Nella Livorno di inizio ottocento la marineria locale è completamente assorbita dal lavoro nelle imbarcazioni mercantili dove si possono trovare condizioni di lavoro e retribuzioni migliori rispetto a quelle dei pescherecci. Questo crea terreno fertile per l’arrivo di intere famiglie di pescatori provenienti dal meridione. Spinti dai divieti borbonici di pesca nei mesi estivi arrivano prima i pescatori napoletani (Torre del Greco, Pozzuoli e Procida), detti tutti genericamente “pozzolani”, e poi i pescatori pugliesi (Molfetta e Trani), detti genericamente “baresi”; ognuno porta le sue tradizioni marinare, là dove non esiste una flottiglia locale già consolidata.
Anche qui assistiamo a iniziali migrazioni stagionali, ma col tempo questi pescatori diventano stanziali e vanno a costituire dei nuclei locali stabili, favoriti anche dalla loro superba maestria nell’arte della pesca in mare aperto, che nel tempo hanno saputo insegnare anche ai pescatori locali. Si vedono le prime barche a vela che pescano a una certa distanza dalla costa, le paranzelle, con equipaggi composti molto spesso da membri della stessa famiglia. Queste barche [3] sono armate per la pesca a strascico e pescano in acque tra 50 e 130 m di profondità. Il loro nome, e quello della pesca per la quale sono usate, deriva dalla caratteristica di navigare in coppia avanzando “alla pari”, tirando insieme le due cime di una rete a sacco, lo strascico. La navigazione di ogni paranza è diretta da un comandante con la qualifica di “Padrone Marittimo”. Poiché le barche non invertono mai tra loro la posizione rispetto alla costa i padroni sono detti, secondo il gergo, di “sopra-vento” o di “sotto-vento” a seconda che si trova sulla paranza vicina alla costa oppure all’esterno. Il complesso delle operazioni di pesca è diretto dal padrone sopra-vento o “comandatore” e a un suo cenno gli equipaggi cominciano a salpare. Muniti di una robusta tracolla, che fissano ai calamenti, i pescatori tirano avanzando in fila sul ponte, poi uno alla volta si staccano e tornano a poppa a riagganciarsi fino a che il sacco è sotto bordo e le barche accostate. Rovesciato in barca, con i grossi paranchi, il pescato viene messo nelle ceste e la rete torna in mare.
Fino a pochi anni fa al mercato del pesce di Livorno il puteolano è lingua dominante ed il cacciucco è rimasto legato a questa memoria. Nato forse sulle "galere" per nutrire i vogatori alla catena, o derivato da un miscuglio dei Fenici, i livornesi narrano che il cacciucco è diffuso dai pescatori pozzolani nella loro diaspora e cambiando nome di città in città è andato via via semplificandosi con sempre minor partecipazione di pesci.
Pescatori puteolani sono poi stanziati anche in altre località toscane come Ansedonia, Talamone, Piombino, al Giglio e naturalmente sull’Isola d’Elba; specialmente a Portolongone (l’odierna Porto Azzurro) unico luogo dell’isola che abbia fatto parte dello Stato dei Presidi.
Sandro Foresi, nel suo “Pesci, Pesca e Pescatori nel mare dell’Elba”, scritto nel 1939, narra che i vecchi pescatori pozzuolani che pullulano a Porto Azzurro cantano nostalgicamente le canzoni del tempo che fu:

“ E damme nu vaso…
e damme n’ato vasillo,
e damme n’ato vasillo, oj né…
ciente vasille, oj né!
Stanuotte sotto ‘a rotta
voglio sunà cu ttè!…

Sempre lo stesso autore elbano ha redatto un’epica descrizione del pescatore di Pozzuoli intitolata “La flotta dei palamitari”. La trascrivo integralmente; andrebbe riportata su un marmo da incastonare nelle mura della nostra “Assunta a mare”.

“Le barche da pesca della flotta dei palamitari di Pozzuoli si trovano sparse su tutte le spiaggie, lungo tutto il litorale della penisola. Tenaci nella loro operosità, i risicatori di tutte le tempeste, al remo e alla vela, realizzatori di tutte le risorse peschereccie, i pozzolani ramingano nel mare nostro, nelle albe e nei tramonti sereni o burrascosi, sempre pronti alla manovra. Affrontano la navigazione in cerca di preda.
Quando la bonaccia monotona li assale accudiscono ai lavori domestici: rassettano le reti, come le donne le calzette, sistemano le nasse, mettono in ordine i palamiti, facendo invidia alle più abili massaie. Perché questi sono i mestieri preferiti dai pozzolani, pescatori di pesce da cacciucco.
I pozzolani partono in crociera dal loro paese in cerca, più che di fortuna, di lavoro. Vivono sotto la tenda, sono i soldati dell’autarchia, mangiano pane secco e pesce scarto, bevono acqua scussa da un anno all’altro. Dopo la pesca si mettono in testa le coffe della preda e corrono come barberi verso il mercato, per venderla al miglior offerente. Son gente che non conosce che fatica e sacrifici e che qualche volta lascia le cuoia sul campo di battaglia, perché la battaglia è continua, senza tregua, battaglia che combattono da quando sono stati ingaggiati nella vita. Si può dire che son nati su quelle barche e che hanno goduto la libertà soltanto quando sono andati a compiere il proprio dovere di soldato.
Pozzolani, gente di fegato, cresciuta alla scuola del dovere, che vive felice fra cielo e mare, che tutto dà e nulla chiede, cantando con nostalgia accorata le canzoni di Piedigrotta, alieni da ogni servo encomio, accampati nelle loro barche, sia che piova o tiri vento.
Le loro imbarcazioni sono pitturate dai colori più vividamente sgargianti. Molte di esse fasciate da una striscia tricolore: segno sacro della Patria. Quando riposano sulla spiaggia, nella luminosità meridiana, sono gaie pennellate di vivida policromia.
Sotto la prua non manca mai la Madonnina di Pompei alla quale accendono notte e giorno il lumicino ad olio perché li salvi da tutte le tempeste.”

Foto 1 - Pozzuoli "Rete di S. Antonio"
Foto 2 - Pozzuoli "Abbascio o' mare"
Foto 3 - Argentario "Paranze di ritorno"

BIBLIOGRAFIA
Don Vincenzo Cafaro – Abbascio o’ mare - 1943
Sandro Foresi - Pesci Pesca e Pescatori nel mare dell’Elba – 1939
Raul Cristoforetti – Capodomo – 2008
www.fondali.it – La pesca nella memoria storica flegrea
www.comune.san-vincenzo.li.it – Gente di Mare


Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 24 novembre 2012

martedì 5 febbraio 2013

La Festa dell’Uva






La Festa dell’Uva
Opera Nazionale Dopolavoro di Pozzuoli

Dal 1930 è indetta, perché voluta da Mussolini, la “Festa Nazionale dell’uva”, alla quale debbono collaborare tutte le istituzioni del Regno. La festa è creata per ragioni di ordine economico (per promuovere il consumo di vino e di uva da tavola, in un momento di grave difficoltà per il settore, valorizzandone le qualità nutritive e terapeutiche) e per ragioni di ordine politico (per alimentare la propaganda e il consenso a favore del regime).
In quel periodo la sovrapproduzione d’uva è un problema reale che attanaglia l’agricoltura; la viticoltura italiana rappresenta uno dei principali pilastri sui quali si regge l’economia nazionale  e per agevolare il consumo dell’uva è istituita questa festa con lo scopo di renderne popolare il consumo.
Il principale organismo cui è demandato l’organizzazione della Festa dell’Uva è l'Opera Nazionale Dopolavoro (O.N.D.); ente istituito con il RDL n. 582 del 1° maggio 1925. L’O.N.D. è concepito e nasce con il principale compito di regolare e inquadrare entro uno spazio controllato e sicuro il tempo libero dei lavoratori. Inoltre nelle intenzioni del Regime l'ente deve rappresentare il raccordo fra il lavoro e la spada, fra la società civile e l'esercito in armi. Nei dopolavoro si svolgono svariate attività, che spaziano dallo svago (sport amatoriale, ballo, cinema, spettacoli di varietà), alla cultura (concerti, spettacoli di lirica e prosa, biblioteche circolanti, bande musicali, corsi di tecnica agraria o di economia domestica, conferenze, prevenzione sanitaria), all'escursionismo (gite a piedi o in bicicletta, "treni popolari", crociere e viaggi all'estero, colonie estive per i figli dei lavoratori), sino allo sport agonistico e alla organizzazione di raduni e feste popolari (Befana fascista, Festa dei fiori, Festa dell'uva, Festa delle mondine, Festa della pesca). Per ultima, ma non ultima, l’attività dei cosiddetti “Carro di Tespi”, una denominazione utilizzata per i teatri ambulanti sorti intorno al 1930 per iniziativa del Ministero della Cultura Popolare, con l'intento di allestire rappresentazioni anche in quei comuni che non sono dotati di un teatro stabile. Tespi, racconta Orazio, è stato un semileggendario poeta e drammaturgo greco antico che si spostava da una città all'altra dell'Attica con un carro sul quale innalzava un palco. I protagonisti erano un attore ed il coro, e questo singolo attore era pure autore del testo. Indubbiamente, come riferisce  Paolo Orano, i Carri di Tespi sono una delle istituzioni più tipiche, significative e perfette ideate e attuate dal regime fascista nel campo artistico e culturale, e sono in pari tempo la prima concezione nel mondo di un teatro mobile rivolto alle masse.
Qualche foto, dell’archivio Parisio scattata nel luglio del 1934, mostra un carro tespiano sia nella colonia marina di Lucrino sia in quella di Arco Felice [1]; attività entrambe curate dalla O.N.D. puteolana.
Dallo stesso 1930 tutti i dopolavoro, che si presentano simili agli attuali circoli ricreativi in cui si gioca a carte ed alcune volte si organizzano delle feste, sono invitati, insieme ai comuni, a celebrare la "Festa dell’Uva". In tutta Italia sorgono comitati locali che si attivano per offrire, ai concittadini e ai visitatori, giornate di svago e di intrattenimento. Giornate riempite da gare canore e arricchite dalla presenza di trionfali apparati scenici, di fontane dalle quali zampilla vino, di sfilate di carri allegorici trascinati da buoi. Tutto ciò vissuto in un'idillica atmosfera da strapaese popolata da “pacchiane” e “furetani” intenti alla animazione del loro quotidiano lavoro nell'ideale modello rurale.
La festa dell’uva è organizzata  in modo tale che il trasporto e lo smercio delle uve, da consumarsi come frutta, sia ben agevolato. Pertanto durante il detto periodo di organizzazione e celebrazione della festa le uve, tanto che siano di produzione locale quanto se provengono da altro Comune, circolano liberamente senza vincolo di bolletta di accompagnamento o di altra formalità (ricordiamoci che fra i diversi comuni esiste ancora la barriera daziale). Inoltre gli appositi comitati per la Festa stabiliscono che la vendita può essere affidata anche a commercianti ed esercenti di ogni genere, compresi caffè - bar e spacci di liquori, esclusi i venditori di vino e cioè gli esercenti di vere e proprie osterie. Singolare è anche la vendita dell’uva che avviene con appositi sacchettini fatti stampare a livello provinciale e poi distribuiti ai vari enti organizzatori. Il compito del Dopolavoro durante le feste dell’uva è di curare la parte folkloristica della festa organizzando cortei in costume e carri “di carattere vendemmiale”. Le manifestazioni debbono avere luogo in tutti i Comuni di “qualche importanza” di ogni provincia italiana.
A similitudine di quanto avviene in altri comuni la prima Festa dell’Uva, che si svolge il 28 settembre 1930, a Pozzuoli è organizzata con non molta enfasi, quasi in sordina, è naturalmente registra poca affluenza di partecipanti e pubblico.
Ma l’anno seguente batte forte la grancassa della propaganda fascista per cui i locali gerarchi ed i vari dopolavoro non possono fare a meno  di impegnarsi nella buona riuscita di un evento voluto da “Lui”.
Il comitato organizzatore è presieduto dal Podestà e da autorità fasciste, da membri dell'O.N.D. e delle associazioni economiche e sindacali puteolani. A questi si aggiunge anche il Poeta Luigi (Gigi) Punzo, indimenticato autore di poesie e canzoni. Punzo ha un ruolo di primo piano nell'ideazione e nell'allestimento coreografico del carro allegorico e nel serale intrattenimento canoro, vero fulcro scenografico della festa. Con questa seconda festa dell’anno 1931 è inaugurato il copione di attrazioni che si replica, sebbene con qualche variante, fino alle ultime edizioni. La manifestazione inizia di mattina con la benedizione dei grappoli nella piazza decorata con trofei, bandiere, e festoni realizzati con tralci di vite. Poi c'è la successiva Messa officiata dal parroco, con la partecipazione di autorità e cittadini. Fuori, nella piazza principale, in chioschi opportunamente allestiti si procede con la vendita dell'uva.
Fra il pomeriggio e la sera si raggiunge l'apice con la sfilata dei carri allegorici folcloristici preparati dai vari Dopolavoro, la tombola a scopo benefico, l’esibizione di gruppi canori, balli campestri, musica e il gran finale con la proclamazione della comparsa femminile più bella, con l'uscita a sorpresa del carro vincitore nella cornice notturna illuminata da fuochi d'artificio e la musica del Corpo Bandistico.
E’ il Dopolavoro dell’Ansaldo Artiglierie ad allestire il primo carro allegorico vendemmiale che trasporta un enorme cesto stracolmo d’uva [2]. Il carro è circondato da un leggiadro pergolato ornato da magnifici grappoli e cinto dal verde fogliame dei pampini che si curvano sul capo di numerose e leggiadre vendemmiatrici a guisa di festoni. Sul retro del carro, un vero carro agricolo non motorizzato ma trainato da una coppia di buoi, è riportata la scritta “Dopolavoro Ansaldo – “LL’UVA NOSTA” – Versi e Musica di Gigi Punzo”. E’ questo il titolo della canzone scritta appositamente dal maestro Punzo e che il tenore Ermanno Cosenza canta montato direttamente sul carro allegorico.
Per la terza festa, il 18 settembre 1932, si ripete lo stesso copione con carro del Dopolavoro Ansaldo e nuova canzone di Punzo “O VINO NUOSTO” scritta anche questa appositamente per l’occasione.
Il 24 settembre 1933 quarta festa, nuovo carro del Dopolavoro Ansaldo, nuova canzone del Maestro “DOPPO VENNEGNA”, ed il tenore Cosenza che ritorna a Pozzuoli per cantarla.
Il 23 settembre 1934 si ripete tutto uguale tranne la canzone che ora si intitola “TARANTELLA ‘E LL’UVA D’ORO”.
Il 15 settembre 1935 sesta festa dell’uva; la nuova canzone del maestro Punzo “O MAGO ACCUSSI’ VVO’…” cantata sempre dal tenore Ermanno Cosenza però sul carro vendemmiale “Bacco” allestito questa volta dal Dopolavoro Comunale di Pozzuoli. La Festa è ormai celebre e in Italia tutti tengono a parteciparvi e mettersi in mostra.
Il 27 settembre 1936 settima festa e questa volta la canzone di Don Luigi si intitola “VENNEGNA E VASE…”; ancora cantata dal tenore Cosenza sul carro del dopolavoro comunale [3].
Anche le feste del '37, '38 e ’39 hanno un grande successo con ampi finanziamenti sia pubblici che privati e la celebrazione, che già da alcuni anni continua anche nella serata del lunedì, si articola secondo il consueto copione.
Ora però la scenografia  è molto più spettacolarizzata perché improntata sul modello della Roma imperiale; fasci littori, colonne sormontate dall'aquila romana, richiami all’impero ed alla grandezza della Patria.
Con il 1940, e l'entrata in guerra, termina in tutta Italia il desiderio e la volontà stessa di festeggiare e le difficoltà economiche conseguenti al conflitto sono poi le cause della sospensione della Festa Nazionale dell’Uva. Nel periodo postbellico solo in alcuni comuni, dove peraltro già esistevano tradizionali feste vendemmiali precedenti a quella fascista, si riprende in sordina la celebrazione anche se sotto altre denominazioni come "Sagra dell'Uva" oppure “Festa della Vendemmia”.
Nel dopoguerra Pozzuoli, come anche afferma l’amico Gennaro (Rino) Chiocca che mettendomi a disposizione il materiale della sua personale collezione mi ha permesso di stendere il presente articolo, si sente più operaia che contadina. La città, come visto con il “Congresso Democratico del Mezzogiorno” tenuto nei capannoni ex Ansaldo il 19 dicembre 1947, è ora epicentro della lotta operaia pertanto, pur non rinnegando il passato contadino, diventa difficile superare le perplessità di quanti associano la festa al passato regime.
Anche la Chiesa puteolana non si entusiasma alla possibilità di una sua ripresa; giustamente la colloca tra le feste pagane nonché pericolosa concorrente della contemporanea Festa di San Gennaro.


BIBLIOGRAFIA
Paolo Orano - I Carri di Tespi dell'O.N.D., Edizioni Pinciana, 1937
Dott.ssa Assunta Medolla – Tutto su Cava
Gennaro Chiocca – Sezione Ansaldo – Collezione privata
www.alfonsinemonamour.racine.ra.it - La Festa dell'Uva  ad Alfonsine





Giuseppe Peluso – Pozzuoli Magazine del 10 novembre 2012